Wednesday, October 06, 2010
Il tunnel degli alberi
Crescendo, dimentichiamo cosa significa essere bambini (…)
(…) ero ritornato (…) a un momento proustiano di richiamo alla memoria, quando il suono degli alberi fuori dalla casa di mia zia era vivido nella mia testa, come se quarant’anni si fossero ridotti a pochi istanti (…)
(…) il profumo del faggio, il mistero del campo di O’Rourke oltre il fosso, lo stupore della distanza dalla strada principale, più di un miglio a valle, il suono dell’espressione – “l’incrocio” – usata per descrivere l’intersezione fra la strada di mia zia e la strada principale che andava da Roscommon a Boyle,la luce esatta di quei molti giorni d’estate che io e Marian, la mia sorella maggiore, passavamo da bambini in quel paradiso (…)
(…) Lì la notte era fatta di morbido fresco, di piccoli colpetti d’aria che occasionalmente sorgevano dal buio. Foglia su foglia. Fil di ferro su legno. Acqua su ferro zincato.
Ricordo il “tunnel degli alberi” appena più in là della casa di mia zia e che c’era qualcosa di rituale nel passarci in mezzo correndo verso il punto in cui abitava Jimmy, che all’epoca era il fidanzato di mia zia (…)
Più avanti, in lontananza, dove la strada curva in salita in direzione dei campi di grano e del sole, sta il povero cancello della casa dove vivono i due Padian. La casetta si erge nella sua fiabesca grandezza profilata contro il cielo occidentale, che per un attimo si rischiara prima di capitolare all’oscurità, il sole fa una macchia rossastra che sembra filtrare attraverso la casa come una mano contro una lampadina.
Quelle settimane passate da zia Teresa erano le più intense della nostra infanzia e quando finivano le vacanze ci dovevano trascinare, urlanti, nel camioncino di papà, per riportarci a Castlerea. Adesso, quarant’anni dopo, mi rendevo conto che da bambino avevo avuto come tutti i bambini, un’intensissima esperienza della religione. Avevo incontrato la realtà e ne ero stato sopraffatto, sopraffatto dalla sua meraviglia e dalla sua intensità. Avevo, istante per istante, sperimentato un senso profondo della realtà religiosa, ma nessuno mi aveva mai detto che si chiamava così.
* John Waters, estratto da Lapsed Agnostic, da profugo a pellegrino
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20 comments:
bellissimo, devo leggerlo senza meno, salutami John
P.S: ma, questo portone l'ho visto la prima volta settimana scorsa in corso di porta ticinese o giù di lì e mi ci son boccata un'attimo davanti...
e da bambino avevo un album di foglie. è arrivato l'autunno.
quel portone é a Milano?
devo fotografarlo assolutamente anch'io.
straordinario John Waters, come sempre
Sì',Anna è in corso si Porta ticinese vicino alle "Colonne di San Lorenzo", poco prima della Chiesa, sul lato opposto...
meglio fotografarlo prima che sparisca,tra l'altro sta lì già da un bel po', mi pare... ;-) oppure basta sentirlo.assorbirlo e ricordare.
Comunque, tutto va... Resta l'essenza.
la foto l'ho fatta io! è a cento metri dal mio ufficio! stupendo, ci farei la copertina di un disco
facci la copertina di un libro
:-)
Grande foto e grande John, Marcello
Ci son passata davanti, proprio stasera Usually, dopo la lezione d'inglese e Lei mi ha parlato come un'esule Palestinese ...
Ed io, che mi sento esule da una vita, mi son commossa. Felice!
;-)
kc
sul corriere di oggi nelal pagina dei libri è recensito quello di de carlo e in mezzo all'articolo c'è la foto di quel portone... il romanzo, leielui, è ambientato a milano
mi fottono sempre le idee migliori
"Avevo, istante per istante, sperimentato un senso profondo della realtà religiosa, ma nessuno mi aveva mai detto che si chiamava così."
Io non so vivere.
Ero ancora ragazzo e sentii un apprezzamento rivolto ad una persona, che suonava più o meno così: “quello è uno che sa vivere”. La cosa mi preoccupò molto perché era del tutto diverso da me: era spigliato, abile, dava la sensazione di riuscire a cavarsela in tutte le situazioni; sembrava nulla lo potesse intimorire, meno che meno il suo prossimo. Era sicuro, consapevole. Mi feci forza, pensando – e cercando di convincere me stesso – che le cose sarebbero cambiate: sarei cresciuto, maturato. Ora sono diventato adulto e ancora non so vivere. Continuo ad esercitare il mio genetico impaccio di fronte a tutto e a tutti. Continuo a sentirmi inadatto, inadeguato, imbarazzato e imbarazzante. Forse lo sono, e forse non lo sono quanto credo di esserlo. Sta di fatto che l'immagine che ho di me è quella di uno che non esiterei a definire 'disadattato'. E' questa il termine più calzante. Un giorno, chi contribuì a mettermi al mondo, parlando di una persona che conoscevo molto bene, disse: “quello è uno pieno di complessi”. E stava parlando di uno che era come me. Nemmeno sulla famiglia potevo contare un granché. Non c'era quindi più alcun dubbio. Ho vissuto nel tentativo continuo di cancellare la mia inaccettabile identità: a cosa poteva servire uno come me?, uno che non avrebbe mai raccolto una briciola di apprezzamenti, da nessuno. Iniziò così la fatica nell'intraprendere tutte le strade possibili per recuperare un incolmabile svantaggio: a scuola, nello sport, nella musica. Un quadrimestre con una buona media o una partita chiusa con una bellissima marcatura rappresentavano il salvagente per tirare avanti. Era proprio quello che stavo facendo, 'tirare avanti', elemosinando stima ovunque, nel tentativo di colmare l'incolmabile, appassionandomi di mille cose per dimenticare la chiara realtà: la voragine era realmente abissale. Altre volte cercavo di impersonare individui che mai avevo visto, cercando di acquisire dalle biografie le loro personalità vincenti, folgoranti. E pure i loro vizi: forse che fumo e alcool mi avrebbero aiutato a crescere? Ma io non ero Jack Kerouac, e nemmeno Bob Dylan, né qualsiasi altro. Gli anni passavano, insipidi, e la consapevolezza che nulla sarebbe cambiato peggiorava le cose: non ero più un ragazzo al quale si può concedere, per inesperienza, l'imbarazzo di fronte alla vita, ma ero un adulto, immaturo, sempre in ritardo nei confronti del tempo. Avrei molte volte desiderato di restituire la mia vita a chi me ne aveva fatto dono. Arrivai a toccare il fondo quando una situazione difficile mi rese ancora più estraneo al mondo in cui vivevo. Ero come un animale braccato, senza via di fuga. Allora ho cercato tutte le vie disponibili per uscire vivo da quell'inferno. Ave, Maria.
Blues
grazie blues, bellissimo. e bentornato
Grazie a te.
Grazie a te.
Così è un pò meno 'Anonymous'.
:-) eh insomma sei ancora anonimo
:) In effetti...
Basta che me lo chiedi, comunque, e ti mando tutti i miei dati. Non che in sé significhino qualcosa... A presto.
"Ero come un animale braccato, senza via di fuga. Allora ho cercato tutte le vie disponibili per uscire vivo da quell'inferno. Ave, Maria."
Non c'è altra via, mi pare, se non cercarla? Per tornarea casa, o anche solo per stare nel momento im-possibile.
Fondamentale sentire il vento. sempre e comunque, anche quando non c'è.
Perchè a volte noi ci fissiamo in una credenza, che propro come un mobile contiene nascondendola la nostra libertà. Come se non ci fosse altro che il segno di feite come strade, dentro di noi, che non portano da nessuna parte, mai.
la credenza è la nostra identità di rifiutati, incapaci, esuli e forse anche pirati.
la libertà è quella dell'esule che accetta di esserlo e viaggia scoprendo che non esiste confine, neppure nel toccare il fondo.
In questa realtà ed in tutte le altre che dimentichiamo. Ma l'eco è forte. il Vento e la Musica lo fanno arrivare. E noi rispondiamo.
Noi esuli siamo un esercito, anzi un popolo. di solitudini. Ed il vento dice non sei solo. Presente. Qui ora..,
Grazie.
:-)
A chi può interessare, il graffito è opera congiunta dei due graffiti artists Elmac e Retna:
http://elmac.net/
http://www.digitalretna.com/
Elmac ha anche un account di Flickr, dove racconta un poco la realizzazione del graffito.
Ovviamente le TAG aggiunte successivamente le ha messe qualche graffitaro scalzacani italiano di turno, rovinando il graffito…
grazie!
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