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Qui, nella zona di Hammersmith, a pochi metri dalle rive del Tamigi, tra casette linde e alberi verdi, il tempo si è un po’ fermato. Grania vive con l’ex marito e il suo nuovo compagno, il mio amico Nigel. E la mamma di 93 anni. Ognuno si prende cura dell’altro. Qualcosa, allora, di quell’epoca “pace & amore” non era solo utopia. Le cose che contano davvero, volersi bene, possono sopravvivere anche in questa epoca di cinismo.
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Accendo una candela a Santa Teresa del Bambino e torno verso un piccolo bar che avevo intravisto poco prima, gestito da una coppia di ragazzi russi. Ma che sanno preparare un perfetto “full english breakfast”: “Have a nice day, boy”, mi dice lei dolcemente quando pago il mio conto e torno a prendere la fredda pioggia di Londra sulla faccia. Prego che la pioggia cancelli tutti i miei peccati, se possibile. Mi dispiace Ralph, ma oggi mi sento solo e il sole, no, non splende.
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Molte birre dopo, mi avvio per entrarci anche io, a sfidare la storia del rock che qui ha vissuto la sua golden age, e che stasera tenta di offrire uno scampolo di ricordi, quando Bob Dylan vi salirà per la prima volta sul palco, di fronte a 1800 spettatori.
Che siamo in Inghilterra, si capisce dall’ordinatissima (e lunghissima) fila di persone che con naturalezza si mette in coda: quando uno fa il furbetto e si infila poco prima dell’ingresso, un tipo della security lo blocca immediatamente e lo rimanda in fondo a tutti. Un po’ come succede in Italia.
Ma che siamo in Inghilterra, e a Londra, lo capisco quando vado a prendere il mio posto numerato nel second circle, sopra alla platea che si accalca davanti al palco. Viene a sedersi nella fila davanti a me, due poltroncine più a destra, Bill Wyman, l’uomo che con Mick Jagger, Keith Richards e Brian Jones diede inizio all’avventura della più grande rock’n’roll band del mondo, nel lontano 1962. 70 anni, ma sempre uguale, immancabile frangetta sugli occhi e splendida ragazza bionda al suo fianco pure.
Qualche minuto dopo lo vedo agitarsi e chiamare “Hey thats Roger! Roger!”. Si alza e va a salutare un amico che si sta sedendo due file sotto di me, un po’ a sinistra. Roger Daltrey, cantante degli Who. Che sembra un californiano palestrato. E meno male che 40 anni fa cantava “spero di morire prima di diventare vecchio”.
I due parlottano qualche minuto, e nessuno che rompa loro le palle con richieste di autografi, foto o quant’altro. D’altro canto siamo a Londra, e queste cose succedono da quarant’anni.
La visuale da qua è magnifica, il sound pure. Cerco sul palco il fantasma di Jimi Hendrix, invece arriva lo Zorro del rock’n’roll, Bob Dylan. Tutti ci aspettiamo almeno qualche brano del nuovo disco, o qualche sorpresina tipo quando a Londra due o tre anni fa intonò London Calling. Invece no, sarà solo uno dei tanti show del Never Ending Tour, uguale a ogni altro. Cominciato molto bene, devo dire, con una rovente Leopard skin pill box hat, memore di quei giorni del 1966 quando Bob Dylan metteva a ferro e fuoco l’Inghilterra con il più grande rock show di tutti i tempi. Seguita da un dolce e folk Don’ Think Twice, Its Alright.
Invece il concerto si trasforma (dopo una orripilante Tangled up in blue che casca a pezzi da ogni parte) in uno showcase di Love and Theft: forse Bob non si ricorda più qual è esattamente il disco che deve presentare e in che anno siamo: ben sei pezzi da quel disco, compresa una imbarazzante Tweedle Dee, una inutile Summer Days (ah, i giorni di Freddy Koella) e una soporifera Po’ Boy.
Inserto (scambio di ms con il mio amico Mike, che è volato apposta da Ottawa, Canada, per questo show, e che si trova giù in platea):
Mike: “Where are the new songs?”
Io: “In his ass”.
Mike: “Amen to that. Hey... TWEEDLE???... Po’ Boy? Jesus Christ make it stop!”.
Quando partono le note immortali della più grande canzone di tutti i tempi, vedo finalmente Bill Wyman avere un sussulto. Ce lo ho anche io, anche se l’esecuzione non è granché: ehi, sto ascoltando Like a Rolling Stone insieme a uno dei Rolling Stones. How cool is that (oh e Bob finalmente si ricorda di essere a Londra quando, presentando Stu Kimball, accenna alla nota Rehab di Amy Winehouse, canticchiando il "leggendario" ritornello "No no no"...).
C’era anche Grania, stasera, ed è felice perché ha passato un paio d’ore “insieme a Bob”. Il mio amico Mike invece ha già dimenticato la delusione per il concerto di Dylan. Lo vedo in mezzo alla strada che urla “I MET DALTREY! I SPOKE WITH ROGER FUCKIN DALTREY! WHO GIVES A SHIT ABOUT BOB DYLAN!” (se non si fosse capito, Mike è un grande fan degli Who).
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What’s real, Grania?