“What’s real, Paolo?”, mi dice Grania, lo sguardo pieno di malinconia. L’ amica che mi ha ospitato nella sua casa di Londra mi ha appena detto di avere 62 anni, io gliene dava al massimo 50 e qualcuno in più. Grania, che quando uscì Sgt. Pepper’s dei Beatles aveva vent’anni. Grania, che ha vissuto appieno la Swinging London e che dice era una “hippie” che andava al lavoro con “i fiori nei capelli”.Qui, nella zona di Hammersmith, a pochi metri dalle rive del Tamigi, tra casette linde e alberi verdi, il tempo si è un po’ fermato. Grania vive con l’ex marito e il suo nuovo compagno, il mio amico Nigel. E la mamma di 93 anni. Ognuno si prende cura dell’altro. Qualcosa, allora, di quell’epoca “pace & amore” non era solo utopia. Le cose che contano davvero, volersi bene, possono sopravvivere anche in questa epoca di cinismo.
Pioggia fredda, cold rain out on my face. Mattina presto, molto presto, per le strade di Soho. I pub chiusi, poca gente in giro, per le stradine che erano il cuore di quella Swinging London. In Soho Square c’è la chiesetta cattolica dove mi ero imbattuto un paio di anni fa, mentre aspettavo di andare a intervistare Shawn Colvin. Mi ci infilo anche questa volta. Ci saranno dentro mezza dozzina di homeless che dormono indisturbati sulle panche. Il silenzio è tutto, qua dentro. Da qualche parte, Ralph McTell canta ancora le strade di Londra: “Have you seen the old man outside the seaman's mission… So how can you tell me you're lonely, and say for you that the sun don't shine?”.Accendo una candela a Santa Teresa del Bambino e torno verso un piccolo bar che avevo intravisto poco prima, gestito da una coppia di ragazzi russi. Ma che sanno preparare un perfetto “full english breakfast”: “Have a nice day, boy”, mi dice lei dolcemente quando pago il mio conto e torno a prendere la fredda pioggia di Londra sulla faccia. Prego che la pioggia cancelli tutti i miei peccati, se possibile. Mi dispiace Ralph, ma oggi mi sento solo e il sole, no, non splende.
Ma splendeva ieri, in una giornata di primaverile tepore che i londinesi raramente vedono. Camden Town, alla domenica, pullula di centinaia di persone, tutte a spasso e tutte dirette verso il famoso mercatino locale. Noi, caracollando di pub in pub, ci stiamo invece dirigendo verso la leggendaria Roundhouse: qui, nel 1968, si esibì Jim Morrison con i suoi Doors. E poi tutti, dai Jefferson Airplane agli Who e Jimi Hendrix. Le mura lanciano vibrazioni immortali. Molte birre dopo, mi avvio per entrarci anche io, a sfidare la storia del rock che qui ha vissuto la sua golden age, e che stasera tenta di offrire uno scampolo di ricordi, quando Bob Dylan vi salirà per la prima volta sul palco, di fronte a 1800 spettatori.
Che siamo in Inghilterra, si capisce dall’ordinatissima (e lunghissima) fila di persone che con naturalezza si mette in coda: quando uno fa il furbetto e si infila poco prima dell’ingresso, un tipo della security lo blocca immediatamente e lo rimanda in fondo a tutti. Un po’ come succede in Italia.
Ma che siamo in Inghilterra, e a Londra, lo capisco quando vado a prendere il mio posto numerato nel second circle, sopra alla platea che si accalca davanti al palco. Viene a sedersi nella fila davanti a me, due poltroncine più a destra, Bill Wyman, l’uomo che con Mick Jagger, Keith Richards e Brian Jones diede inizio all’avventura della più grande rock’n’roll band del mondo, nel lontano 1962. 70 anni, ma sempre uguale, immancabile frangetta sugli occhi e splendida ragazza bionda al suo fianco pure.
Qualche minuto dopo lo vedo agitarsi e chiamare “Hey thats Roger! Roger!”. Si alza e va a salutare un amico che si sta sedendo due file sotto di me, un po’ a sinistra. Roger Daltrey, cantante degli Who. Che sembra un californiano palestrato. E meno male che 40 anni fa cantava “spero di morire prima di diventare vecchio”.
I due parlottano qualche minuto, e nessuno che rompa loro le palle con richieste di autografi, foto o quant’altro. D’altro canto siamo a Londra, e queste cose succedono da quarant’anni.
La visuale da qua è magnifica, il sound pure. Cerco sul palco il fantasma di Jimi Hendrix, invece arriva lo Zorro del rock’n’roll, Bob Dylan. Tutti ci aspettiamo almeno qualche brano del nuovo disco, o qualche sorpresina tipo quando a Londra due o tre anni fa intonò London Calling. Invece no, sarà solo uno dei tanti show del Never Ending Tour, uguale a ogni altro. Cominciato molto bene, devo dire, con una rovente Leopard skin pill box hat, memore di quei giorni del 1966 quando Bob Dylan metteva a ferro e fuoco l’Inghilterra con il più grande rock show di tutti i tempi. Seguita da un dolce e folk Don’ Think Twice, Its Alright.
Invece il concerto si trasforma (dopo una orripilante Tangled up in blue che casca a pezzi da ogni parte) in uno showcase di Love and Theft: forse Bob non si ricorda più qual è esattamente il disco che deve presentare e in che anno siamo: ben sei pezzi da quel disco, compresa una imbarazzante Tweedle Dee, una inutile Summer Days (ah, i giorni di Freddy Koella) e una soporifera Po’ Boy.
Inserto (scambio di ms con il mio amico Mike, che è volato apposta da Ottawa, Canada, per questo show, e che si trova giù in platea):
Mike: “Where are the new songs?”
Io: “In his ass”.
Mike: “Amen to that. Hey... TWEEDLE???... Po’ Boy? Jesus Christ make it stop!”.
Quando partono le note immortali della più grande canzone di tutti i tempi, vedo finalmente Bill Wyman avere un sussulto. Ce lo ho anche io, anche se l’esecuzione non è granché: ehi, sto ascoltando Like a Rolling Stone insieme a uno dei Rolling Stones. How cool is that (oh e Bob finalmente si ricorda di essere a Londra quando, presentando Stu Kimball, accenna alla nota Rehab di Amy Winehouse, canticchiando il "leggendario" ritornello "No no no"...).
C’era anche Grania, stasera, ed è felice perché ha passato un paio d’ore “insieme a Bob”. Il mio amico Mike invece ha già dimenticato la delusione per il concerto di Dylan. Lo vedo in mezzo alla strada che urla “I MET DALTREY! I SPOKE WITH ROGER FUCKIN DALTREY! WHO GIVES A SHIT ABOUT BOB DYLAN!” (se non si fosse capito, Mike è un grande fan degli Who).
Tornato dalla mia passeggiata nella pioggia di Soho, preparo le valigie, guardo un’ultima volta Magic, the London Cat che è stato sul mio letto negli ultimi tre giorni. Mi viene in mente una vecchia poesia di Cicely M. Baker, The song of the Rose Fairy: “Words can never tell half of the beauty of a Rose... what a delight to be Fairy of the Rose”. Sono fortunato, ne ho conosciute di rose nella mia vita.What’s real, Grania?





