"Sono tornato, Obama". Le immagini di "Jihadi John" come è stato soprannominato il killer di James Foley e adesso di Steven Sotloff e le sue parole di sfida fanno quasi venire in mente un film western, del tipo "Sfida all'OK Corral". O anche una brutta e disgustosa versione di un classico di Sergio Leone. Gli ingredienti ci sono tutti: il deserto, la vittima in attesa di essere giustiziata, il carnefice con il coltello in mano invece di una Colt 45, il soprannome degno appunto di apparire tra il buono, il brutto e il cattivo, tra Clint Eastwood e Eli Wallach. E le sue parole di sfida: precise, pensate, impietose.
C'è un altro elemento però: "Jihadi John", che si è meritato anche una pagina di wikipedia, è inglese, come si è capito dal suo accento da perfetto est londoner. Pare che nella sua vita precedente fosse un dj o anche un rapper. Il nome "John" l'ha preso in prestito da John Lennon in quanto la cellula terroristica di cui faceva parte a Londra si faceva chiamare i "Black Beatles" e i suoi compagni George e Ringo.
Non è la prima volta che i Beatles finiscono dentro a un episodio di orrore. Nel 1969 la gang di Charles Manson, quella che massacrò Sharon Tate e alcuni suoi ospiti ponendo fine al sogno hippie di pace e amore, usò la loro canzone Helter Skelter per firmare la strage, scritta con lettere di sangue delle vittime sui muri della casa in cui avvenne il fatto.
CLICCA SU QUESTO LINK PER CONTINUARE A LEGGERE L'ARTICOLO
Friday, September 05, 2014
Friday, August 22, 2014
After midnight
Nel fondo più fondo. Dove nessuno è mai entrato dal giorno che l'ultimo uomo ha posto l'ultima pietra. Nel cuore segreto della cattedrale. Nel buio più buio. C'è un posto dove nessuno può entrare, dove tutti gli uomini si sono fermati con sgomento. Si sono arresi.
Sotto alla pioggia nei vicoli a notte fonda, in macchina nell'ora più buia, quella che precede l'alba. Le insegne luminose dei negozi e dei ristoranti fanno a pugni con le vetrine chiuse, come luci sulle tombe nel cimitero. E' una città abbandonata, è una epidemia che ha sterminato chiunque, è un pozzo di dolore senza fine.
Nel silenzio assordante, nel rumore del silenzio. Scavando a mani nude in quel cuore che pulsa di indicibile amore. Un amore troppo grande per essere contenuto, un amore troppo puro per essere dato al mondo. Gli uomini si sono arrestati e arresi davanti a quel cuore.
Quel dolore che c'è ancora prima della nascita. Un dispiacere per la vita che non nasce dalla vita, ma viene prima. Quel marchio che sembra assurdo nell'anima. Quelle mani che hanno preso per il collo e hanno lasciato un buco, tanti buchi, inspiegabili e inestirpabili.
Chi ha voluto quel dolore, chi ha segnato quel cuore e lasciato quei buchi? E soprattutto, perché? Chi ti ha voluto così tanto da tenerti solo per lui? Chi? Chi ti ha marchiato col fuoco perché quel dolore restasse, un segno, il segno. Quel segno. Di un amore infinito. Che spaventa, perché non è di questo mondo. Non tutti hanno il cuore per reggere tutto ciò.
"Ah! Come colmarlo, quest'abisso delle vita? Che fare? Perché il desiderio è sempre lì, più forte che mai, più folle che mai".
Quella pietra nel buio della cattedrale dove nessuno era più entrato. Qualcuno ci andò. Vide la pietra e vide la scritta. Vide anche lei e capì quello che c'era da capire: "Perché ho aspettato tanti anni per capire che ho l'anima buona?".
Lei era il volto di una bellezza che non appartiene a questo mondo. Lei non apparteneva a questo mondo, ma era nel mondo ed era del mondo. Se gli altri erano fuggiti, lui rimase.
Quando uscì dal buio della cattedrale era buio anche fuori. Pioveva. Macchine passavano veloci, impiegati correvano per prendere un mezzo che li riportasse a casa, al calore, alle luci, al conforto. A un abbraccio. Lui camminava piano fumando sigarette e bagnandosi. Non aveva bisogno di andare da nessuna parte perché era già arrivato. Si fermò fino a quando le lacrime diventarono una cosa sola con la pioggia e ringraziò, sommessamente ringraziò. Nel silenzio del suo cuore non era più solo.
Sotto alla pioggia nei vicoli a notte fonda, in macchina nell'ora più buia, quella che precede l'alba. Le insegne luminose dei negozi e dei ristoranti fanno a pugni con le vetrine chiuse, come luci sulle tombe nel cimitero. E' una città abbandonata, è una epidemia che ha sterminato chiunque, è un pozzo di dolore senza fine.
Nel silenzio assordante, nel rumore del silenzio. Scavando a mani nude in quel cuore che pulsa di indicibile amore. Un amore troppo grande per essere contenuto, un amore troppo puro per essere dato al mondo. Gli uomini si sono arrestati e arresi davanti a quel cuore.
Quel dolore che c'è ancora prima della nascita. Un dispiacere per la vita che non nasce dalla vita, ma viene prima. Quel marchio che sembra assurdo nell'anima. Quelle mani che hanno preso per il collo e hanno lasciato un buco, tanti buchi, inspiegabili e inestirpabili.
Chi ha voluto quel dolore, chi ha segnato quel cuore e lasciato quei buchi? E soprattutto, perché? Chi ti ha voluto così tanto da tenerti solo per lui? Chi? Chi ti ha marchiato col fuoco perché quel dolore restasse, un segno, il segno. Quel segno. Di un amore infinito. Che spaventa, perché non è di questo mondo. Non tutti hanno il cuore per reggere tutto ciò.
"Ah! Come colmarlo, quest'abisso delle vita? Che fare? Perché il desiderio è sempre lì, più forte che mai, più folle che mai".
Quella pietra nel buio della cattedrale dove nessuno era più entrato. Qualcuno ci andò. Vide la pietra e vide la scritta. Vide anche lei e capì quello che c'era da capire: "Perché ho aspettato tanti anni per capire che ho l'anima buona?".
Lei era il volto di una bellezza che non appartiene a questo mondo. Lei non apparteneva a questo mondo, ma era nel mondo ed era del mondo. Se gli altri erano fuggiti, lui rimase.
Quando uscì dal buio della cattedrale era buio anche fuori. Pioveva. Macchine passavano veloci, impiegati correvano per prendere un mezzo che li riportasse a casa, al calore, alle luci, al conforto. A un abbraccio. Lui camminava piano fumando sigarette e bagnandosi. Non aveva bisogno di andare da nessuna parte perché era già arrivato. Si fermò fino a quando le lacrime diventarono una cosa sola con la pioggia e ringraziò, sommessamente ringraziò. Nel silenzio del suo cuore non era più solo.
Wednesday, July 30, 2014
Me and the devil
Di solito gli artisti italiani quando riescono invitano un ospite straniero a suonare in una, due canzoni del loro disco. Serve per dare maggiore robustezza alle sonorità che si intendono proporre, serve a dichiarare forte l’amore per un certo tipo di musica. Un chitarrista, un duetto vocale. Nel disco “Me and the Devil” accade invece il contrario. Inciso in Italia da una idea di Edward Abbiati , leader dei Lowlands, vede la presenza di un sostanzioso numero di musicisti americani (e che musicisti) tanto che Edward diventa quasi lui l’ospite di un progetto nato in Italia (registrato in una cascina in provincia d Pavia) ma totalmente internazionale. Una operazione coraggiosa ma che non ha una virgola fuori posto, il risultato è centrato brillantemente. Con Abbiati ecco l’ex tastierista dei Green On Red Chris Cacavas (con lui si è spartito la scrittura dei brani e della voce solista), l’ex batterista live di Bob Dylan, lo straordinario Winston Watson, e Mike Brenner al basso e alla chitarra elettrica. Ci sono anche altri validi musicisti (David Henry, Richard Hunter, Stefan Roller, Andres Villani) ma il nucleo è quello.
Il risultato? Magico. Visioni notturne, jump blues anni 40, echi di ballate folk, rockabilly anni 50, quando il rock'n'roll era ancora da immaginare. Belle canzoni. Belle voci che si sfidano e si inseguono. Bei suoni, come se fossero stati costuditi dalla notte dei tempi perché un italiano e un manipolo di americani li tirasse fuori e ce li offrisse come una visione, come una speranza, come un cuore che sanguina.
Io e il diavolo: che altro? D'altro canto la vita è così.
Il risultato? Magico. Visioni notturne, jump blues anni 40, echi di ballate folk, rockabilly anni 50, quando il rock'n'roll era ancora da immaginare. Belle canzoni. Belle voci che si sfidano e si inseguono. Bei suoni, come se fossero stati costuditi dalla notte dei tempi perché un italiano e un manipolo di americani li tirasse fuori e ce li offrisse come una visione, come una speranza, come un cuore che sanguina.
Io e il diavolo: che altro? D'altro canto la vita è così.
Tuesday, July 29, 2014
I giorni del Fillmore
Erano ottime giornate per andare in moto, erano i giorni dell’estate Indiana dalle parti di Macon, Georgia, profondo sud degli States. Il giovane baffuto e dai lunghi capelli biondi amava andare in moto, specie con quel grosso chopper Harley Davidson che aveva comprato da un ragazzo della sua città. Sembrava una di quelle moto del film Easy Rider, uscito al cinema solo un paio di anni prima, con le forcelle modificate apposta per farlo assomigliare di più alle motociclette di Peter Fonda e Dennis Hopper. Quelle forcelle però lo rendevano difficile da guidare e poi aveva bisogno di gomme nuove, aveva giusto telefonato il giorno prima a un gommista per farsele procurare.
Quel pomeriggio del 29 ottobre 1971 erano quasi le 18 e 45 quando il ragazzo sulla motocicletta cercò di superare un grosso camion che stava svoltando a sinistra davanti a lui, solo che l’autista di quel camion decise non si sa perché di fermarsi bloccando la carreggiata. Il motociclista sembrò riuscire a schivarlo con eleganza poi invece improvvisamente volò in aria perdendo il casco e sfracellandosi a terra. In qualche modo aveva sbattuto contro il grosso gancio che pendeva dietro al camion. Quando lo raccolsero respirava ancora. Lo portarono in ospedale. Alle 20 e 40 di quello stesso giorno Duane Allman, 24 anni, viene dichiarato morto.
Due mesi prima era uscito il primo disco dal vivo della sua band, il terzo della carriera della Allman Brothers Band, di cui Duane insieme al fratello Gregg era il fondatore, il leader e il chitarrista, registrato allo storico Fillmore East di New York, il locale rock per eccellenza di quegli anni. Non un chitarrista qualunque, come la ABB non era una band qualunque. Come ha detto qualcuno, quella band era americana esattamente come il rumore dei condizionatori d’aria che sono immancabili in ogni città americana, fonte di sopravvivenza alle impossibili estati afose di New York, Chicago o del profondo sud, quel profondo sud, la Georgia, da cui provenivano i fratelli Allman.
CLICCA SU QUESTO LINK PER CONTINUARE A LEGGERE L'ARTICOLO
Quel pomeriggio del 29 ottobre 1971 erano quasi le 18 e 45 quando il ragazzo sulla motocicletta cercò di superare un grosso camion che stava svoltando a sinistra davanti a lui, solo che l’autista di quel camion decise non si sa perché di fermarsi bloccando la carreggiata. Il motociclista sembrò riuscire a schivarlo con eleganza poi invece improvvisamente volò in aria perdendo il casco e sfracellandosi a terra. In qualche modo aveva sbattuto contro il grosso gancio che pendeva dietro al camion. Quando lo raccolsero respirava ancora. Lo portarono in ospedale. Alle 20 e 40 di quello stesso giorno Duane Allman, 24 anni, viene dichiarato morto.
Due mesi prima era uscito il primo disco dal vivo della sua band, il terzo della carriera della Allman Brothers Band, di cui Duane insieme al fratello Gregg era il fondatore, il leader e il chitarrista, registrato allo storico Fillmore East di New York, il locale rock per eccellenza di quegli anni. Non un chitarrista qualunque, come la ABB non era una band qualunque. Come ha detto qualcuno, quella band era americana esattamente come il rumore dei condizionatori d’aria che sono immancabili in ogni città americana, fonte di sopravvivenza alle impossibili estati afose di New York, Chicago o del profondo sud, quel profondo sud, la Georgia, da cui provenivano i fratelli Allman.
CLICCA SU QUESTO LINK PER CONTINUARE A LEGGERE L'ARTICOLO
Wednesday, July 23, 2014
siamo i giornalisti della ggente, il potere ci temono
Quanto ci divertiamo su facebook. Una cifra. Ehi sono serio. Io mi ci diverto. Si scherza, ci son quelli che sanno davvero far ridere. In molti ci provano a far ridere ma non è che ci riescano così bene. Non è obbligatorio lasciare sempre un commento o una frase, volevo dirvelo. Volevo anche dire ai signori di Wall Street che quotano in borsa il faccia libro che ho 1800 amici di cui solo il 2,5% è attivo, cioè frequenta il sito. Un altro 2,5% magari ci passa senza mai lasciare commenti e legge qualcosa ma quotare a livelli milionari facebook è una delle tante bufale della realtà virtuale che ormai si è impossessata anche dell’economia. Facebook vale un cazzo la cifra che viene valutato, sappiatelo. Ah lo sapete? Ottimo. Dunque l’economia del terzo millennio vale un cazzo pure.
Comunque ho imparato da mo’ a non tirare fuori argomenti di politica e religione su facebook che poi ne escono sempre fuori delle risse (virtuali ovviamente che in faccia nessuno avrebbe il coraggio). Mi occupo solo di musica o dei miei malanni (purtroppo non virtuali). A proposito di musica, ultimamente mi sta venendo la voglia di non andarci più su fb. Devo dirlo: sono un po’ stufo di leggere aggiornamenti quotidiani di tanti cantautori o presunti tali che ci informano in che tonalità hanno accordato oggi la chitarra, cosa hanno mangiato a pranzo che poi li ha ispirati a scrivere una canzone, come procede day by day la registrazione del loro nuovo disco, quanti soldi hanno incassato ieri grazie al crowdfunding, cosa faranno domani e perché insomma il mio disco sarà meglio del tuo. In realtà mi sono accorto di avere più amici cantautori intenti a pubblicare un nuovo disco – in media ne fanno tre all’anno – che amici ascoltatori. Non parliamo poi dei critici musicali, o anche degli scrittori. Mi sento obsoleto. E pensare che io quelle cose lì le faccio per lavoro. Ma nel tempo che ci metto a scrivere un articolo o un libro, qualcuno ha già scritto otto recensioni di dischi e pubblicato sei libri. Cazzo scrivo a fare, mi domando? Anche perché è tutto gratis oggigiorno.
Così volevo dire ai miei amici cantautori o rock band che non è così figo pubblicare ogni giorno informazioni sulle canzoni che state scrivendo o di che colore sarà la copertina del vostro disco. Lasciate un po’ di mistero. Auto promuoversi su base quotidiana non dà grandi risultati. Almeno per me. Io preferisco avere il disco fatto e finito e semmai lo ascolterò. Ho la casella postale inondata invece di demo e proto demo, pseudo demo e anti demo. Non li ascolto. E’ così bello ascoltare quello che avrete fatto quando l’avrete finito, non mi interessa sapere se quando avete registrato quella tal canzone avevate gli slip o i boxer con la faccia della Mogherini. Il mistero è tutto, nell’arte e nella vita. Coltivatelo. Fatevi scoprire, non svendetevi in anticipo. Poi non vi compra più nessuno.
Siccome poi questa sembra l’estate dei festival che nascono come i bambini sotto alle foglie di cavolo – che i bambini mica li porta la cicogna, sappiate anche questo – mi viene da dirvi che andare a un festival sponsorizzato da una rivista anche se musicale non vi fa molto del bene. Io che scrivo per altre riviste – musicali – non vedo perché dovrei parlate dopo di voi dopo che avete suonato per quel tal giornale. Non perché sia un brutto giornale, ma allora aspettatevi per tutta la vita recensioni solo da quel giornale. E’ così che funziona, ci vuole un po’ di rispetto anche in queste cose. Anche perché in quei festival c’è più gente sul palco che tra gli spettatori, se ci fate caso. E da decenni da quel buchino lì non esce niente e nessuno. Ve la cantante e ve la suonate tra di voi. Certo, vi diranno che siete incredibilmente bravi e che cazzo di rock figo fate e che siete degni di suonare in America e che l’Italia non è degna di voi e che non capiamo un cazzo, italiani di merda. Ma vi ha fatto vendere due dischi in più tutto questo? Non so, vado a mettermi le mutande con la faccia della Mogherini.
Comunque ho imparato da mo’ a non tirare fuori argomenti di politica e religione su facebook che poi ne escono sempre fuori delle risse (virtuali ovviamente che in faccia nessuno avrebbe il coraggio). Mi occupo solo di musica o dei miei malanni (purtroppo non virtuali). A proposito di musica, ultimamente mi sta venendo la voglia di non andarci più su fb. Devo dirlo: sono un po’ stufo di leggere aggiornamenti quotidiani di tanti cantautori o presunti tali che ci informano in che tonalità hanno accordato oggi la chitarra, cosa hanno mangiato a pranzo che poi li ha ispirati a scrivere una canzone, come procede day by day la registrazione del loro nuovo disco, quanti soldi hanno incassato ieri grazie al crowdfunding, cosa faranno domani e perché insomma il mio disco sarà meglio del tuo. In realtà mi sono accorto di avere più amici cantautori intenti a pubblicare un nuovo disco – in media ne fanno tre all’anno – che amici ascoltatori. Non parliamo poi dei critici musicali, o anche degli scrittori. Mi sento obsoleto. E pensare che io quelle cose lì le faccio per lavoro. Ma nel tempo che ci metto a scrivere un articolo o un libro, qualcuno ha già scritto otto recensioni di dischi e pubblicato sei libri. Cazzo scrivo a fare, mi domando? Anche perché è tutto gratis oggigiorno.
Così volevo dire ai miei amici cantautori o rock band che non è così figo pubblicare ogni giorno informazioni sulle canzoni che state scrivendo o di che colore sarà la copertina del vostro disco. Lasciate un po’ di mistero. Auto promuoversi su base quotidiana non dà grandi risultati. Almeno per me. Io preferisco avere il disco fatto e finito e semmai lo ascolterò. Ho la casella postale inondata invece di demo e proto demo, pseudo demo e anti demo. Non li ascolto. E’ così bello ascoltare quello che avrete fatto quando l’avrete finito, non mi interessa sapere se quando avete registrato quella tal canzone avevate gli slip o i boxer con la faccia della Mogherini. Il mistero è tutto, nell’arte e nella vita. Coltivatelo. Fatevi scoprire, non svendetevi in anticipo. Poi non vi compra più nessuno.
Siccome poi questa sembra l’estate dei festival che nascono come i bambini sotto alle foglie di cavolo – che i bambini mica li porta la cicogna, sappiate anche questo – mi viene da dirvi che andare a un festival sponsorizzato da una rivista anche se musicale non vi fa molto del bene. Io che scrivo per altre riviste – musicali – non vedo perché dovrei parlate dopo di voi dopo che avete suonato per quel tal giornale. Non perché sia un brutto giornale, ma allora aspettatevi per tutta la vita recensioni solo da quel giornale. E’ così che funziona, ci vuole un po’ di rispetto anche in queste cose. Anche perché in quei festival c’è più gente sul palco che tra gli spettatori, se ci fate caso. E da decenni da quel buchino lì non esce niente e nessuno. Ve la cantante e ve la suonate tra di voi. Certo, vi diranno che siete incredibilmente bravi e che cazzo di rock figo fate e che siete degni di suonare in America e che l’Italia non è degna di voi e che non capiamo un cazzo, italiani di merda. Ma vi ha fatto vendere due dischi in più tutto questo? Non so, vado a mettermi le mutande con la faccia della Mogherini.
Thursday, July 10, 2014
Teach your children
Erano i Fab Four americani. Erano i nuovi Beatles. In quell'estate del 1974 nessun altro artista rock era come loro, neppure i Rolling Stones, da anni ormai sulle vette e giustamente definiti "la più grande rock'n'roll band del mondo". Neanche i Led Zeppelin, che furoreggiavano sui palchi da anni, neppure Bob Dylan che pure nel gennaio di quello stesso anno era tornato alle scene dopo otto anni dall'ultima volta con un tour che aveva fatto registrare la più alta richiesta di biglietti della storia. I Beatles, ovviamente, si erano già sciolti. Ma nessuno prima di loro aveva fatto un tour negli stadi. Quella che oggi è la normalità, allora fu un azzardo che spostava in alto ancora una volta l'asticella di un mondo, quello del rock, che sembrava superare se stesso ogni giorno.
Erano giorni straordinari, erano quei giorni in cui, come disse qualcuno, "dei giganti camminavano sulla faccia della terra". Erano i giorni in cui tutto sembrava possibile: mandare a casa un presidente corrotto, Richard Nixon, fermare la guerra in Vietnam e loro quasi ci riuscirono e sì, come diceva una loro canzone, "cambiare il mondo". Decenni prima del "yes we can" di Barack Obama, loro cantavano "we can change the world".
Ma non tutto sarebbe stato così facile. Ogni grande storia chiede un grande prezzo, e loro stessi ne avrebbero pagato le conseguenze, in termini di ricadute, galera, amori finiti male e soprattutto la loro stessa amicizia mandata in malora. Che dietro ogni grande storia di musica ci sono innanzitutto degli amici, ma il successo, il volare troppo vicino al sole prima o poi ti schianta. C'è un limite, e pretendere di superarlo non va bene. Qualcuno lo capisce solo provandoci. Questa comunque sarebbe stata una autentica storia rock, di sesso, droga e appunto rock'n'roll. Con alcune delle più gradi performance musicali che questa storia abbia mai conosciuto.
CLICCA SU QUESTO LINK PER CONTINUARE A LEGGERE L'ARTICOLO
Erano giorni straordinari, erano quei giorni in cui, come disse qualcuno, "dei giganti camminavano sulla faccia della terra". Erano i giorni in cui tutto sembrava possibile: mandare a casa un presidente corrotto, Richard Nixon, fermare la guerra in Vietnam e loro quasi ci riuscirono e sì, come diceva una loro canzone, "cambiare il mondo". Decenni prima del "yes we can" di Barack Obama, loro cantavano "we can change the world".
Ma non tutto sarebbe stato così facile. Ogni grande storia chiede un grande prezzo, e loro stessi ne avrebbero pagato le conseguenze, in termini di ricadute, galera, amori finiti male e soprattutto la loro stessa amicizia mandata in malora. Che dietro ogni grande storia di musica ci sono innanzitutto degli amici, ma il successo, il volare troppo vicino al sole prima o poi ti schianta. C'è un limite, e pretendere di superarlo non va bene. Qualcuno lo capisce solo provandoci. Questa comunque sarebbe stata una autentica storia rock, di sesso, droga e appunto rock'n'roll. Con alcune delle più gradi performance musicali che questa storia abbia mai conosciuto.
CLICCA SU QUESTO LINK PER CONTINUARE A LEGGERE L'ARTICOLO
Wednesday, July 02, 2014
Don't let us get sick
Un disco tributo di solito si tende a farlo bello fragoroso: artisti di punta, riletture estrose delle canzoni originali, pigiando bene l'acceleratore sulla potenza sonica. In un certo senso ci sta: si vuole attirare l'attenzione sull'autore, anche se spesso si finisce per voler mettere in evidenza solo se stessi. Buon esempio è proprio il precedente tributo a Warren Zevon, uscito pochi mesi dopo la morte dell'artista californiano, infarcito di grandi nomi, pure di una star hollywoodiana come Adam Sandler che ci azzeccava come il due di picche. A parte i contributi live di Dylan e Springsteen, un tributo buono per post hippie diventati yuppie, niente di più lontano dallo spirito di Zevon.
Phil Cody ha scelto un approccio diverso. In parte perché è una sorta di fantasma anche lui. Nel 1996 aveva esordito con uno dei dischi di songwriting più belli di quel decennio, e capace di farsi mettere in fila insieme ai migliori esordi di sempre. A "The Sons of Intemperance Offering" purtroppo era seguito ben poco degno di nota, e del lontano parente di Bufalo Bill (William Cody) si erano perse le tracce.
Tracce che ritroviamo adesso grazie a un disco contenente solo canzoni di Warren Zevon, scomparso nel 2003, uno dei massimi talenti mai espressi dalla musica americana di sempre. Non sappiamo perché abbia deciso di fare questo disco, anche se istintivamente ci viene da pensare che i due abbiano più di qualcosa in comune. Non solo la capacità di scrivere splendide canzoni, ma anche una buona dose di sfiga, quel "bad karma", quella sorte da beautiful loser che sembra accomunarli, insomma la gente con il cuore grande difficilmente è a suo agio in questo mondo (e anche un po' la voce, sgangherata e spezzata in modo uguale).
CLICCA SU QUESTO LINK PER CONTINUARE A LEGGERE LA RECENSIONE
Phil Cody ha scelto un approccio diverso. In parte perché è una sorta di fantasma anche lui. Nel 1996 aveva esordito con uno dei dischi di songwriting più belli di quel decennio, e capace di farsi mettere in fila insieme ai migliori esordi di sempre. A "The Sons of Intemperance Offering" purtroppo era seguito ben poco degno di nota, e del lontano parente di Bufalo Bill (William Cody) si erano perse le tracce.
Tracce che ritroviamo adesso grazie a un disco contenente solo canzoni di Warren Zevon, scomparso nel 2003, uno dei massimi talenti mai espressi dalla musica americana di sempre. Non sappiamo perché abbia deciso di fare questo disco, anche se istintivamente ci viene da pensare che i due abbiano più di qualcosa in comune. Non solo la capacità di scrivere splendide canzoni, ma anche una buona dose di sfiga, quel "bad karma", quella sorte da beautiful loser che sembra accomunarli, insomma la gente con il cuore grande difficilmente è a suo agio in questo mondo (e anche un po' la voce, sgangherata e spezzata in modo uguale).
CLICCA SU QUESTO LINK PER CONTINUARE A LEGGERE LA RECENSIONE
Monday, June 16, 2014
Siamo tutti ammutinati
Quando nel 1998 David Gray pubblica il disco "White Ladder" non pensa certo che due anni dopo diventerà un best seller a livello mondiale. Lui infatti lo pubblica in modo indipendente, convinto che seguirà la sorte dei due precedenti dischi che ha già inciso, cioè lo compereranno solo in pochi. Il disco invece finisce nelle mani del cantante e leader della Dave Matthews Band che nel 2000 lo fa ripubblicare per una etichetta con distribuzione mondiale.
Poco dopo succederà anche a un collega irlandese, tale Damien Rice, che pubblicato sommessamente un disco intitolato "O", nel giro di pochi mesi lo vedrà frantumare ogni classifica di vendita. Che sta succedendo? Niente, succede quel che è giusto succeda. Ciclicamente e per motivi misteriosi, il grande pubblico scopre e riscopre la bellezza senza fine della canzone d'autore.
David Gray e Damien Rice sono solo gli ultimi affidatarii di una torcia che non smetterà mai di bruciare fino a quando un uomo sulla terra saprà cantare. "Ancora oggi ci sono in giro un sacco di bravissimi cantautori, ma è difficile per loro farsi notare. Il mainstream è molto ostile nei loro confronti. La musica è diventata una forma di stupidità conclamata e cercare di darle un significato oggigiorno non è cosa facile. Faccio parte di una tradizione molto ricca, quella dei cantautori, ma non puoi stare fermo sui tuoi allori, c'è una sfida dietro ogni angolo, devi stare sempre con la guardia molto alta" dice David Gray in questa intervista che presenta il suo nuovo disco, "Mutineers".
clicca su questo link per leggere l'intervista
Poco dopo succederà anche a un collega irlandese, tale Damien Rice, che pubblicato sommessamente un disco intitolato "O", nel giro di pochi mesi lo vedrà frantumare ogni classifica di vendita. Che sta succedendo? Niente, succede quel che è giusto succeda. Ciclicamente e per motivi misteriosi, il grande pubblico scopre e riscopre la bellezza senza fine della canzone d'autore.
David Gray e Damien Rice sono solo gli ultimi affidatarii di una torcia che non smetterà mai di bruciare fino a quando un uomo sulla terra saprà cantare. "Ancora oggi ci sono in giro un sacco di bravissimi cantautori, ma è difficile per loro farsi notare. Il mainstream è molto ostile nei loro confronti. La musica è diventata una forma di stupidità conclamata e cercare di darle un significato oggigiorno non è cosa facile. Faccio parte di una tradizione molto ricca, quella dei cantautori, ma non puoi stare fermo sui tuoi allori, c'è una sfida dietro ogni angolo, devi stare sempre con la guardia molto alta" dice David Gray in questa intervista che presenta il suo nuovo disco, "Mutineers".
clicca su questo link per leggere l'intervista
Monday, June 09, 2014
Old Man
Stasera sono andato dal mio nuovo dottore. Il mio quadro clinico fa abbastanza schifo ma già lo sapevo, solo facevo finta di non saperlo. Mi ha dato un fottio di esami da fare no so se li farò, chi ne ha voglia. Ne ho ancora in arretrato di sei mesi da fare. Mi ha detto che devo farlo perché sono vecchio, sono un uomo e ho uno stile di vita di merda. Interessante che abbia detto che sono un uomo. Gli uomini si sa muoiono prima delle donne. Poi sono andato al bar sotto casa e mi sono ubriacato pensando che sarà l'ultima volta che lo faccio perché ehi sono vecchio ho un quadro clinico da schifo e sono un uomo. Mi sono ubriacato u con un autista di camion in pensione che è il sosia di Gino Paoli. Mi sono divertito un casino più di quando mi ubriacavo con quei cazzoni di giornalisti musicali a qualche concerto del cazzo sperando di ubriacarmi ancora dopo il concerto con la star. Mi ha raccontato un sacco di cose divertenti della sua vita, mi ha fatto vedere tutto contento sul suo cellulare che non era un iPhone ma una schifezza da quattro soldi la foto di quando qualche settimana fa aveva vinto una gara di pesca, un pescione da quattro chili tutto orgoglioso che poi ha rimesso in acqua. Poi mi ha detto che non va quasi più a casa sua in Abruzzo dove ha ancora la mamma di 94 anni viva, perché sua moglie ha un sacco di problemi fisici e si è un po' intristito. Pensava fossi anche io un pensionato, tanto devo apparire un vecchio del cazzo anche se fino a oggi ho fatto finta di non crederci. Sono un vecchio del cazzo con un quadro clinico di merda. Chisse ne fotte, continuerò a ubriacarmi lo stesso. Tanto io in pensione non ci andrò mai, me l'hanno fottuta insieme alla mai vita. Giovane in fondo non lo sono stato mai.
Friday, June 06, 2014
Sister Act (?)
"Voglio che Gesù entri qua dentro" dice suor Cristina poco prima di lanciare il Padre nostro che conclude The Voice con la vittoria (annunciatissima) della religiosa. Perché Gesù "deve entrare qua dentro"? Che cos'è The Voice, un luogo di perdizione, di maleficio, di inganno, di bruttura? Per quanto chi si esibisce a The Voice e generalmente a tutti i talent show televisivi (rarissime le eccezioni, forse Alessandra Amoroso e Mengoni) esibiscano bruttissime voci, non ci sembra che The Voice meritasse una particolare presenza del buon Dio. The Voice è un innocuo show televisivo come milioni di altri, che non fa né male né bene, semplicemente come tutto ciò che passa in televisione "distrae".
E' proprio su questo finto scontro tra fede e ateismo, tra acqua santa e diavoletti, tra veste religiosa e tatuaggi (i quali, lo sappiamo, ormai se li fanno anche i direttori di banca) che si è giocata l'ipocrisia e la banalità di questa inesistente disputa religiosa che ha portato a questa edizione di The Voice un pubblico globale, calcolato in decine di milioni di spettatori, o su prime pagine anche sul New York Times.
Ma in realtà non c'era nessuna disputa religiosa, perché J-Ax e Piero Pelù sono dissacranti e blasfemi quanto lo è mia figlia di 11 anni quando ascolta gli One Direction. Cioè non lo sono per nulla.
CLICCA SU QUESTO LINK PER CONTINUARE A LEGGERE L'ARTICOLO
E' proprio su questo finto scontro tra fede e ateismo, tra acqua santa e diavoletti, tra veste religiosa e tatuaggi (i quali, lo sappiamo, ormai se li fanno anche i direttori di banca) che si è giocata l'ipocrisia e la banalità di questa inesistente disputa religiosa che ha portato a questa edizione di The Voice un pubblico globale, calcolato in decine di milioni di spettatori, o su prime pagine anche sul New York Times.
Ma in realtà non c'era nessuna disputa religiosa, perché J-Ax e Piero Pelù sono dissacranti e blasfemi quanto lo è mia figlia di 11 anni quando ascolta gli One Direction. Cioè non lo sono per nulla.
CLICCA SU QUESTO LINK PER CONTINUARE A LEGGERE L'ARTICOLO
Thursday, June 05, 2014
L'unica Television che vogliamo vedere
"E' la seconda volta che suoniamo in Italia in quasi quarant'anni" dice Tom Verlaine a un certo punto. E' vero, e la dice lunga delle barriere che ancora esistono tra certa musica rock e la nostra terra dei cachi. I Television sono apparsi sul palco dell'Alcatraz di Milano come una visione, come una testimonianza, come una immagine ferma nel tempo di una scena musicale tra le più effervescenti ed eccitanti, quella di New York della seconda metà degli anni 70. Ma loro erano diversi, fuori da ogni schema e da ogni tempo: i Grateful Dead del punk li definì qualcuno. Ci si può solo immaginare la faccia di chi, entrando al CBGB's per ascoltare l'ennesimo gruppo punk, si fosse imbattuto nei Television: chi diavolo sono questi e che musica fanno?
La domanda rimane attualissima ancor oggi, anche se dopo "Marquee Moon" disco di esordio datato 1977 e uno dei più straordinari album di esordio di ogni epoca, hanno fatto ben poco, complici gli sbalzi umorali del leader Tom Verlaine. Il quale, senza la sua band, in Italia c'era comunque venuto diverse volte, ma in un modo o nell'altro aveva sempre deluso. Che fosse stato sul palco insieme all'amica Patti Smith, seduto in un angolo e quasi assente, quasi dimenticandosi di suonare, o che si fosse esibito in coppia con l'altro chitarrista dei Television Jimmy Rip, perso in un irritante solipsismo.
All'Alcatraz invece Verlaine ha tirato fuori tutto il suo straordinario talento, regalando una esibizione da incorniciare. La serata era dedicata all'esecuzione integrale proprio di "Marquee Moon", un evento per noi italiani, tanto che l'Alcatraz, seppur ridotto nella sua capienza era affollatissimo di un caldo pubblico, e l'atmosfera dell'evento era ben rappresentata dalla presenza di tutti o quasi i sopravvissuti di certo giornalismo rock, gente che come il sottoscritto è cresciuta con dischi come questo e che si è mossa anche da Roma per non perdere questo concerto.
CLICCA SU QUESTO LINK PER CONTINUARE A LEGGERE L'ARTICOLO
La domanda rimane attualissima ancor oggi, anche se dopo "Marquee Moon" disco di esordio datato 1977 e uno dei più straordinari album di esordio di ogni epoca, hanno fatto ben poco, complici gli sbalzi umorali del leader Tom Verlaine. Il quale, senza la sua band, in Italia c'era comunque venuto diverse volte, ma in un modo o nell'altro aveva sempre deluso. Che fosse stato sul palco insieme all'amica Patti Smith, seduto in un angolo e quasi assente, quasi dimenticandosi di suonare, o che si fosse esibito in coppia con l'altro chitarrista dei Television Jimmy Rip, perso in un irritante solipsismo.
All'Alcatraz invece Verlaine ha tirato fuori tutto il suo straordinario talento, regalando una esibizione da incorniciare. La serata era dedicata all'esecuzione integrale proprio di "Marquee Moon", un evento per noi italiani, tanto che l'Alcatraz, seppur ridotto nella sua capienza era affollatissimo di un caldo pubblico, e l'atmosfera dell'evento era ben rappresentata dalla presenza di tutti o quasi i sopravvissuti di certo giornalismo rock, gente che come il sottoscritto è cresciuta con dischi come questo e che si è mossa anche da Roma per non perdere questo concerto.
CLICCA SU QUESTO LINK PER CONTINUARE A LEGGERE L'ARTICOLO
Subscribe to:
Posts (Atom)
Sangue nei solchi del cuore
“Bob Dylan è in città, c’è bisogno di catturare qualcosa di magico”. La “città” è ovviamente New York, al telefono John Hammond, il più gran...
I più letti
-
E ci sono state le lacrime e c’è stata una stella cadente che ha attraversato il cielo aprendosi in due. E ci sono state preghiere e c’è sta...
-
"Edward Hopper, pittore statunitense famoso soprattutto per i ritratti della solitudine nella vita americana contemporanea". Oibò,...
-
L'altra sera sono andato a vedere il concerto di Bruce Springsteen And The E Street Band. Ogni volta che viene in Italia non me lo perd...
-
Nick Hornby, in tutte le top five del suo (peraltro bello) Alta fedeltà, naturalmente non ha incluso la top five delle migliori fuck you son...
-
E' una giornata di sole oggi a Los Angeles. D'altro canto a Los Angeles c'è sempre il sole. L'anziano signore, sempre elegan...
-
This blog for hire , come diceva il musicista rock più amato in questo blog... Così oggi lascio spazio all'amico Giorgio Natale , con cu...
-
Paolo Vites, giornalista musicale da circa 25 anni, ne ha visti di concerti. Dai primi, a fine anni 70, quando la musica dal vivo tornò a es...
-
“Ogni sera c’è del rossetto sulla sua camicia, ogni mattina lei lo lava via. Aveva sentito dire che in ogni vita una parte della vita stessa...
-
Quello che è successo a Parigi la sera del 13 novembre, a molti di noi appassionati di musica rock ci ha segnato per sempre. Non perché un r...
-
“Bob Dylan è in città, c’è bisogno di catturare qualcosa di magico”. La “città” è ovviamente New York, al telefono John Hammond, il più gran...