Don't go home with your hard-on
It will only drive you insane
You can't shake it (or break it) with your Motown
You can't melt it down in the rain
E' vero che le canzoni rock dicono la verità, ma a volte parlano di una realtà che non ci appartiene e in cui cerchiamo forzatamente di identificarci. Voglio dire: l'amore è sempre amore a tutte le latitudini e in tutte le situazioni, ma quello di cui cantavano ad esempio i Led Zeppelin o gli Stones era frutto di esperienze che solo i "gods of rock" potevano vivere. Non sono andato in tour con loro, ma qualcosa ho visto del rock'n'roll lifestyle e comunque ne ho letto.
Mi piace Leonard Cohen per tanti motivi, uno dei quali è che lui non ha mai fatto parte di quel lifestyle, anche se ci è passato abbastanza vicino per ovvi motivi di lavoro. Lui è però uno di noi, da tutti i punti di vista. Basterebbe il look, giacca e cravatta, per farlo sembrare uno che ha appena timbrato il cartellino ed è uscito dalla banca dove va a lavorare tutti i giorni. Le sue canzoni d'amore, praticamente tutte, parlano di un amore di ogni giorno, a volte fin troppo banale (vabbé, a parte quella sera al Chelsea Hotel con Janis Joplin...), amori consumati in fretta con una moglie o un marito che aspettano a casa, niente a che vedere con groupie disperate abbandonate in qualche memory motel.
C'è un suo disco, che è normalmente considerato il suo peggiore, che invece merita ben altri riconoscimenti. Si intitola in modo appropriato Death of a Ladies' Man, morte di un dongiovanni, ricorda un po' il Morte di un commesso viaggiatore credo non a caso, ed è solo apparentemente l'opposto di quanto detto prima. Prodotto (super prodotto!) dal genio di Phil Spector, contiene tutti gli eccessi musicali che solo Spector poteva permettersi: una valanga di strumenti e di idee pazze. E' il trionfo del kitsch ma è il trionfo di una epoca storica, gli anni 70, e montagne di polvere bianca si annidano ancora tra i solchi, ogni volta che lo suonate. Che ci azzecca il tranquillo e triste signor Cohen? Ci azzecca, ci azzecca... Come il commesso viaggiatore di Arthur Miller, questo dongiovanni è un borghese piccolo piccolo.
Da un punto di vista l'ironia di questa operazione è massima, dall'altro ascoltarlo è veramente infilarsi nei panni di un qualunque brav'uomo degli anni 70. Non so voi, ma io me li ricordo questi personaggi. Camicie collo d'elefante, orribili cravattone larghe e corte quasi al mento, completi gessati di tinta pacchiana.... e belle donne con vaporosi capelli e tacchi alti intorno. Dongiovanni del bar di periferia o del lungomare. Gente dalla vita banalissima che si truccava da quello che fingeva di essere e faceva, della libertà sessuale acquisita dalle rivoluzioni degli anni 60, il proprio privato e impietoso tornaconto. Ne paghiamo oggi le conseguenze. C'è un orribile e disgustoso programma televisivo, ad esempio, su un canale satellite che ne è lo specchio perfetto: un gruppo di uomini, attoruncoli, modelli, architetti di successo, conduttori radio, trend setters vari, si ritrova a tavola ad abbuffarsi intanto discutendo del modo migliore per farsi una ragazza, se davanti o di dietro e altre amenità del genere. Roba da vergognarsi di essere uomini: ma le femministe dove sono finite? (non che ne senta poi tanto la mancanza eh).
Non è un caso che, a livello lirico, questo sia il disco meno interessante di Cohen, di solito poeta massimo, qua descrittore quasi imbarazzato di vizi e noiose love story di terza mano. Con un momento di selvaggio umorismo, però: Don't Go Home with your Hard-on, in cui fanno capolino ai cori due altri geni di ebrei, un quartetto (includendo anche Spector), anzi un poker d'assi che sconquassa tutto quanto gli anni 70, nel loro aver voluto essere politically correct, non furono: Bob Dylan e Allen Ginsberg + Cohen ovviamente. Provate a tradurre il titolo di questa canzone in italiano: peggio di un brano di Elio e le storie tese... E Cohen, che di solito sussurra, non canta, qua canta a squarciagola, come non lo avete mai sentito, inebriato di tanto cazzeggio (è il caso di dirlo).
Gli arrangiamenti di Spector comunque sono bellissimi, e il risultato - ma ci vogliono parecchi ascolti e nessun pregiudizio in mente, per apprezzarlo - è unico e stordente, divertente ed esaltante. Questo disco è il romanzo degli anni 70, la dissacrazione dell'era del soft rock, del prog rock, del country rock e finanche della disco music. O la loro singola esaltazione in parti diverse scecherate insieme.
Dicono che Cohen e Spector quasi si presero a colpi di pistola durante queste registrazioni. Niente di più possibile, sapendo che fine ha fatto l'ex grande produttore (in galera per omicidio).
Io però sogno ancora un disco di Bruce Springsteen e uno di Bob Dylan prodotti da lui. Ve li immaginate Born to Run o Blonde on Blonde con il suo wall of sound? Da paura.
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5 comments:
io con questo disco ho sempre avuto un rapporto altaloenante... a volte me ne inebrio ed altre storco il naso a seconda dell'umore... però credo che, se sulla colertina ci fosse scritto leonard cohen più phil spector, molti pregiudizi sparirebbero... perchè chi si aspetta un disco di cohen viene spiazzato... è una collaborazione questa (50 e 50) e così va ascoltato...
una curiosità, forse sai togliermela... musicalmente l'ultima traccia è pari pari a nobody loves you when you're down and out di john lennon (su walls and bridges) o sbaglio?? e se sì, sai perchè??
oddio quel disco di lennon non ce l'ho..
ma nel rock ci si è sempre copiati a manetta
blonde on blonde con quel pazzo? da paura! Cmq da quando mi son perso Cohen a Milano, ogni che ne leggo qualcosa mi incazzo!
recensione bellissima ed "illuminante"...
anch'io
sono della squadra pratelli
:-/
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