The phone don't ring
And the sun refused to shine
Never thought I'd have to pay so dearly
For what was already mine
For such a long, long time
We made mad love
Shadow love
Random love
And abandoned love
Accidentally like a martyr
The hurt gets worse and the heart gets harder
The days slide by
Should have done, should have done, we all sigh
Never thought I'd ever be so lonely
After such a long, long time
Time out of mind Nell’autunno del 2002 Bob Dylan si apprestava a riprendere la strada per una nuova serie di concerti. Non era niente di nuovo, apparentemente, solo una nuova tappa del Never Ending Tour che questa volta sarebbe cominciata da Seattle, nord California.
Niente di nuovo, ma in realtà molto di nuovo. Quella serie di concerti avrebbe segnato un nuovo, ma drammatico, cambiamento, nell’approccio live del cantautore americano. Niente di nuovo neanche qui, visto che era tutta la vita che Dylan lo faceva. Per alcuni (probabilmente solo io) l’inizio della sua parabola discendente.
La sera del 4 ottobre, a Seattle, quando sul palco si notò la presenza di un pianoforte elettrico modello Casio, tutti si chiesero se Dylan avesse assoldato un tastierista. Invece sarebbe stato lui a mettersi dietro alle tastiere. Non lo avrebbe fatto per tutta la serata, ma ben presto sì, quello sarebbe diventato il suo strumento preferito, e addio alla chitarra. Il che dura tutt’oggi, anche se nel tempo Dylan ha imparato a conoscere i vari tasti che la caratterizzano, adesso preferendo la sonorità “organo” a quella “pianoforte”. Con un solo problema: Bob Dylan non sa suonare né il pianoforte né l’organo. Il suo, quella sera, era un “plink plonk” scoordinato e fuori tempo, il più delle volte tenuto saggiamente nascosto nel mixeraggio complessivo degli strumenti dal palco.
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Non era solo lo strumento del cantautore che cambiava, ma anche la voce. Nulla di nuovo ancora una volta: in quarant’anni di carriera Bob ylan aveva più volte cambiato la voce di quante volte io abbia cambiato automobile in vent’anni (e ne ho cambiate parecchie). Ogni volta, però, era una sfumatura, un approccio, un qualcosa di diverso, ma che fondamentalmente lasciava intatta la voce. Che non è mai stata bella, per gli standard di Tin Pan Alley, ma affascinante, inquietante, tagliente, sardonica, con quel fraseggio unico che nessuna ha mai avuto nel campo della musica popolare. Adesso invece era solo una voce affaticata. Che mostrava, sera dopo sera, gli inevitabili segni di un deterioramento impossibile a fermarsi. Qualche spiritoso gli affibbiò un nuovo (niente di nuovo…) soprannome: The wolfman, l’uomo lupo. A volte gli mancava il respiro, altre quella voce un tempo orgogliosa e sprezzante crollava a terra in un rantolo doloroso.
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E se vi sembra abbastanza, no, non lo è ancora. Non era finita qua. Quella sera a Seattle avrebbe mostrato altro ancora. Dopo una iniziale, rara, ma suonata recentemente anche in Europa, Solid Rock, il quarto pezzo in scaletta lasciò il pubblico a domandarsi se stesse ascoltando un inedito di Dylan. Solo quelli, là in mezzo, che conoscevano uno dei più grandi songwriter americani di sempre (a volte mi viene da pensare, il più grande – dopo Dylan naturalmente) ebbero un sussulto. Erano le note, seppur affaticate nella versione di Dylan, della straordinaria Accidentally like a Martyr. L’autore? Mister Warren Zevon.
Non sarebbe finita lì, perché nel corso della stessa serata di Zevon avrebbe eseguito anche la violenta Boom Boom Mancini e la dolcissima, tristissima Mutineer.
Che sta succedendo qui, mister Jones? Il mondo dei fan si sarebbe scatenato a cercare la risposta su Internet, per scoprire che Bob Dylan aveva deciso di omaggiare un amico morente. Warren Zevon era stato dichiarato malato terminale: il tumore che lo aveva colpito gli lasciava pochi mesi di vita. Per tutto quel tour autunnale Dyan avrebbe continuato ad omaggiarlo, senza mai perdersi in banali discorsetti dal palco sul perché e percome avesse deciso di cantare quelle canzoni: era la musica che parlava, non c’era bisogno di aggiungere altro. Come dire: queste canzoni sono troppo belle perché vadano dimenticate e se adesso il suo autore non può più cantarle, allora lo farò io, un'ultima volta. E poi, le sere dopo,inserendo altri pezzi di Zevon in scaletta, ad esempio Lawyers, Guns and Money. Mai, nella storia del rock, si era assistito a una cosa del genere. Di solito, i tributi si fanno quando l’amico è già nella cassa. Interrogato (Zevon si sarebbe recato a vederlo quando il cantautore avrebbe suonato a Los Angeles, qualche sera dopo), Warren avrebbe detto che queste esecuzioni di sue canzoni da parte di Bob Dylan erano il punto più alto della sua carriera.
Se Mutineer la si può ascoltare nel tributo su cd Enjoy Every Sandwich, fu Accidentally like a Martyr il momento più commovente di questo evento. Ogni sera Bob Dylan, cercando di recuperare ciò che restava della sua voce, avrebbe lasciato srotolare la splendida e maestosa melodia del brano, fino al punto in cui la canzone dice “time out of miiiiiiind”. Già, proprio come il titolo del suo disco di qualche anno prima, Time out of Mind. Un tempo immemorabile, dove risiedono la pietà, la bellezza, il sogno e la speranza. Della vita che non muore. Dove esiste quella “tower of song” di cui canta Leonard Cohen, Dove i poeti, i santi e i peccatori si ritrovano. In un tempo immemorabile. Dove ogni sera trovava rifugio, nel cantarla, il cuore addolorato di Bob Dylan.
Che si può ascoltare qua:
http://www.box.net/shared/static/t5sjjbdc3i.mp3
Quel tour avrebbe visto Dylan, sin dalla serata di Seattle, affrontare altre cover: una sorprendente, esplosiva e virulenta Brown Sugar degli Stones; Old Man di Neil Young (che sembrava cucita apposta per lui visto l’argomento toccato…) e finanche una incredibile End of the Innocence, del cantante degli yuppie per eccellenza, Don Henley. Che nella versione di Bob Dylan diventava magnificente.
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Era diventato il “cover tour”, il tour delle cover, e in modo sorprendente erano proprio questi brani altrui che Dylan eseguiva nel modo migliore, lasciando noia e routine alle sole sue canzoni. Per quando il tour avrebbe raggiunto New York, per le sue ultime date, era morto un altro grande amico, George Harrison. Nella sera del 13 novembre una nuova cover sarebbe stata aggiunta, per una sola e unica volta: Something.
Warren Zevon, invece, sarebbe morto undici mesi dopo quella sera di Seattle, il 3 settembre 2003. Nel suo ultimo disco, registrato durante la malattia e pubblicato postumo, ringraziava Bob Dylan cantando la canzone di chi si appresta al grande e ultimo viaggio, Knockin’ on Heaven’s Door.