Ho un debole per le donne. A parte non essere capaci di guidare la macchina, sono in tutto migliori di noi maschietti. Si portano sulle spalle il peso del mondo da quando questo è stato creato, e ancora hanno il senso dello humour. Capisco Leopardi, che nella bellezza di Silvia vedeva un rimando a Dio. E no, non credo a boiate come “l’uguaglianza dei sessi” o “dovrebbero esserci più ministri donne”. Siamo diversi, uomini e donne, e loro sono molto meglio di noi. Solo per il fatto che ci permettono di venire al mondo.
In musica, da anni, se non ci fossero donne come Lucinda Williams, Emmylou Harris, Liz Phair, Beth Orton, Natalie Merchant, Aimee Mann, Sinéad O’Connor, Mindy Smith, Tift Merritt, Kasey Chambers, Sheryl Crow, Edie Brickell, Ani DiFranco, Rickie Lee Jones, Patti Smith, Margo Timmins, Juliana Hatfield, Victoria Williams – e potrei andare avanti a lungo – avrei smesso di ascoltare dischi.
Ne ho incontrate diverse, facendo il mio lavoro. Di Beth Orton e Sheryl Crow ho già parlato abbastanza. Adesso parlerò di tre ragazze speciali, la prima delle quali Natalie Merchant.
Non mi piaceva particolarmente il gruppo in cui militava negli anni 80, i 10,000 Maniacs, ma appena cominciata la carriera solista non potei che apprezzarla. Per la presentazione del suo primo disco solista venne a Milano, per una conferenza stampa e uno showcase. Alla conferenza stampa se ne stava seduta con le gambe incrociate e i lunghi capelli neri raccolti in una lunga treccia, sembrava la classica ragazzina americana di campagna che aveva appena sfornato una torta di mele. Al concerto per pochi invitati conquistò tutti con una energia e una carica formidabili, inclusa una lunga versione di Sympathy For The Devil degli Stones. Con un sorriso serafico stampato sul volto, si aggirava per la sala – riconosciuto solo da me- il suo nuovo manager, un certo Jon Landau.
Qualche anno dopo avevo appuntamento telefonico con lei per una intervista. Mi rispose con un sonoro sbadiglio e le voce decisamente assonnata, ma in italiano quasi perfetto. In effetti era a letto, come mi spiegò, la sera prima aveva fatto un concerto. Del tutto disinteressata a promuovere il suo nuovo disco, mi raccontò di aver studiato italiano a Firenze e per convincermi della bontà dei suoi studi si mise a cantarmi una canzone di Lucio Battisti. Non scorderò più la sua dolce voce sexy che mi sussurrava nell’orecchio. Dopo di che, quando ci mettemmo a parlare di George Harrison allora da poco scomparso, pensò bene di cantarmi anche la sua If I Needed Someone. Un concerto telefonico privato di Natalie Merchant, e poi dicono che questo sia un brutto lavoro.
Ho scoperto Aimee Mann, come quasi tutti, dopo averne sentito i brani nella colonna sonora di Magnolia. Eppure era già in giro negli anni 80 con una improbabile band da Mtv, i Till Tuesday. Affrancatasi da quell’immagine, ha cominciato a sfornare dischi uno più bello dell’altro, sorta di Elvis Costello al femminile e per di più americana. Canzoni che trattano di rapporti di coppia come faceva solo, tanti anni fa, Joni Mitchell, con la stessa apparente distaccata autorevolezza, come delle sedute psicanalitiche in cui lei stessa si esamina insieme all’ascoltatore.Entro nella saletta dove accoglie i giornalisti per le interviste, e lei è lì, seduta su un divano con le lunghissime gambe accavallate. Non è bella. È bellissima. Non è una bellezza perfetta, la sua, ma quegli occhi grandi da cerbiatto impaurito romperebbero il cuore di ghiaccio di un eschimese, e rivelano tutta la sua vulnerabilità nascosta in quel fisico da vichinga. Bionda, biondissima. Deve andare a fare shopping da Armani perché una sua canzone è stata candidata all’Oscar e deve presentarsi in mezzo alle grandi star di Hollywood fra pochi giorni, non vuole fare brutte figure.
Non vincerà, ma comunque le dico che potrebbe andare in televisione anche in jeans e scarpe da tennis che non potrebbe mai fare brutta figura. Due anni dopo, non essendo ancora mai venuta a suonare da noi, al telefono le dico che sono pronto a volare a Londra per non perdermi il suo show: “Yeah, Paolo... come to see me” mi dice sensualmente. "Paolo" così non me l'hai mai detto nessuna: per un attimo dimentico di essere sposato e soprattutto che lei è sposata con il fratello di Sean Penn. Non vorrei trovarmelo davanti, vista la fama che hanno i fratelli Penn… per fortuna un anno dopo sarebbe finalmente venuta a suonare a Milano. Concerto da favola, ovviamente, ma niente più inviti da parte sua.
Se c’è una cantante che dopo Patti Smith ha incarnato al meglio l’essenza della donna incazzata e orgogliosa, quella è Chrissie Hynde. La prima volta che la incontro, insieme ad altri due colleghi, è il trentennale di Woodstock e a lei, che quel giorno che Neil Young avrebeb cantato nella sua Ohio era una dei manifestanti della Kent University quando quattro di questi vennero uccisi, mi viene da chiedergli quale pensa sia l’eredità della generazione di Woodstock. “Un sacco di morti per droga” dice in tono sprezzante, e vaffanculo all’etica hippie. Non le manda a dire, Chrissie, non l’ha mai fatto, ma dopo ogni tagliente battuta le esce un sorrisetto dolcissimo da quella bocca altrimenti sempre indurita da una ghigno degno di Keith Richards. Evidentemente ha un cuore anche lei, penso.
Un paio di anni dopo dobbiamo incontrarci di nuovo, c’è un nuovo disco di cui parlare, e questa volta ho appuntamento da solo. Arrivo davanti alla porta della suite del grande albergo milanese dove alloggia, busso, nessuno risponde, noto che è socchiusa. Timidamente mi affaccio nella camera della piccola suite, e la prima cosa che scorgo è un letto non rifatto e un paio di scarpe rosse coi tacchi buttate alla rinfusa nel corridoio. Scena perfetta per un documentario sul “sex drugs and rock’n’roll”, penso, quando la sua manager esce dal bagno e mi comunica che Chrissie sta tornando dallo shopping, devi aver pazienza qualche minuto. E io che già mi immaginavo di venir trascinato tra le coltri di quel letto disfatto al suono della sua The Adultress.
“I love Bob Dylan, I love him rock, I love him folk, I love him gospel… I love him anything he do” mi dirà più tardi quando tocco l’argomento “Zimmerman”. Non so se al suo attuale compagno si rivolga con la stessa traboccante passionalità di quando pronuncia il nome “Bob Dylan”…
Quando ci salutiamo mi chiede di consigliarle quali pezzi dovrebbe suonare con i Pretenders nel corso di una prossima serata milanese: “I love everything you do” è l’ovvia risposta. Detto con meno sex appeal di quanto ne abbia lei, ovviamente.
Vorrei parlare anche di "Crazy Mary", la dolcissima Minnie del rock, Victoria Williams. Magari un'altra volta. Per adesso, una foto a cui tengo molto.
Wednesday, May 28, 2008
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7 comments:
una curiosità... qual era la canzone
di Battisti sussurrata telefonicamente?
paolo, dopo questo post non hai più il diritto di impedirmi di realizzare interviste con le fanciulline. O meglio, non hai più il diritto di sfottermi quando broccolo con le rockstar. Senza considerare, poi i momenti indimenticabili in cui un John Doe, in allegro assetto alcoolico pre-concerto, voleva farmi conoscere sua figlia, caldeggiando il nostro fidanzamento...
un abbraccio ci sentiamo presto...
Paolo, che sia un brutto lavoro mi sa che lo dici solo tu... :-)
appresto
Invidia a palate...
invidia a tonnellate!
Luca Skywalker
michele: era 'Anche per te'...
luca: aspetta di quando parlerò del mio incontro con Patti Scialfa :-)
Decisamente il mio post preferito...il mio post o preferito è sempre in mezzo alle donne! :°)
Ciao
Alfredo
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